BERRETTINI, PROVE TECNICHE DI CAMPIONE
“Il mio amore vuole di più. La gente vuole di più, vuole amore e libertà”. Gala canta di un boyfriend squattrinato ma dai valori forti mentre Matteo Berrettini, con gli stessi valori e qualche zero in più nel conto in banca, ha appena completato il primo capitolo del suo progetto per diventare un grande giocatore. Prove tecniche di campione. Il 7-5 7-5 a Sascha Zverev, che nel 2017 aveva vinto qui il suo primo Masters 1000 e l’anno scorso era stato fermato da Rafa Nadal e da uno scroscio di pioggia salvifico per lo spagnolo, vale la sua prima vittoria contro un top 10. Vale la certificazione di una nuova dimensione a Roma, dove aspetta Diego Schwartzman o Albert Ramos per andare poi nell’eventuale quarto di Kei Nishikori o Marin Cilic. Vale l’inizio di una nuova storia che parte da Roma e abbraccia il mondo.
“L’ho vissuta come una partita alla pari. Ero convinto di batterlo dall’inizio” ha detto in conferenza stampa. Rispetto all’anno scorso, quando perse a Roma proprio contro Zverev, è cambiato tanto. “”Volevo soprattutto godermi questo momento, farlo durare il più possibile. L’anno scorso, contro Zverev, quando sono entrato in campo pensavo che me la sarei potuta anche giocare ma era come se mancasse un pezzettino. Era più emozione, quest’anno c’era più convinzione”.
La standing ovation mentre il bel sorriso di Berrettini riempie i maxischermi, il cappellino lanciato con l’orgoglio di chi ha regalato una giornata da non dimenticare, pennellano un presente di ambizioni realizzate e un futuro di confini da esplorare. “Vedere il mio team in lacrime dopo la partita è stata la cosa più bella della giornata” ha detto l’azzurro. Dicono che nell’origine del nome Matteo ci sia il termine ebraico che significa “regalo”. È un dono al tennis italiano, la promessa di un percorso di successo da realizzare nel viaggio e nella meta.
Zverev ha servito più forte, ma ha corso di più. Si è aiutato di più con la prima, ma ha vinto il 20% in meno di punti con la seconda. Berrettini ha vinto dieci punti in più negli scambi sotto i cinque colpi nonostante il 56% di prime in campo.
Vince tre punti in più nel primo set, cinque in più negli scambi sotto i cinque colpi. È pienamente nel ruolo, si gonfia ad ogni punto senza essere borioso. Apre le braccia, alza la testa, perché lo sa che il livello c’è non più solo per giocarsela con il numero 5 del mondo.
Berrettini ha il sorriso un po’ timido ma schietto, gli occhi che parlano e una testa che pensa, a volte troppo, ma di sicuro bene. “Un’occhiata alla classifica la do sempre, ma non faccio programmazione per guadagnare punti. Devo mettere ancora tanto fieno in cascina, questo è l’obiettivo, quello che ci siamo sempre detti. Sento che c’è tanto margine, ancora non sono completo, non sono un giocatore a 360 gradi”
Il Centrale si esalta, Vincenzo Santopadre e Umberto Rianna contengono la soddisfazione, covano un desiderio ambizioso, quasi uno sfizio. La prima vittoria contro un top 10, l’affermazione che qualcosa è davvero cambiato, che il momento è maturo. Maturo come le sue spalle larghe, come il tempo del ragazzo che legge Dostojevskij, serve come i grandi americani e dipinge palle corte. L’Italia l’ha aspettato, l’ha immaginato, un giocatore così.
I suoi punti di riferimento, dice, sono tanti. “la mia famiglia, mio fratello che anche se è più giovane fa alcune cose meglio di me. Quando sono nelle giornate negative, in cui penso troppo, mi ispiro a lui che riesce ad essere più leggero, a farsi scivolare le cose addosso. Ho vissuto poi a stretto contatto con Flavio Cipolla. Nonostante siamo due giocatori totalmente diversi, mi ha fatto crescere molto. Molti anni fa, mi diceva: più ti parli addosso, meno possibilità hai di vincere il punto dopo. E’ una cosa banale, ma non così tanto per un ragazzo di 15 o 16 anni. Poi Umberto Rianna, con cui collaboro dal 2015, il mio preparatore mentale Stefano Massari. La cosa bella del mio team è che sono persone con cui vado a mangiare una pizza molto volentieri, e questo non è affatto scontato”.
È un clic questa partita, un’epifania, il senso di una differente consapevolezza. Dentro l’ossimoro di un cognome da vezzeggiativo e di una potenza che invece suggerisce robusta grandezza e solide realtà, si muove la nuova dimensione del prossimo top player azzurro.
Berrettini va 30-0 sopra in tutti primi tre turni di battuta. Zverev, che inizia in risposta come nella finale del 2017, perde subito il servizio. Berrettini gli prende campo, gli esulta anche quasi in faccia. Il Centrale si riempie, il tono della partita cambia. La contrapposizione che è anche fisica, morfologica, oltre che tecnica, si esalta. Servizio e risposta, il biondo e il bruno, Italia-Germania che nello sport vuol dire epica del racconto, storia che diventa emozione.
Prende campo Zverev, che l’anno scorso ha regalato la sua maglia al figlio di Francesco Totti dopo la finale persa contro Rafa Nadal: non si erano mai incontrati prima, disse, “ma so chi è e Roma mi piace. È stato un onore che sia venuto a vedere la mia partita. In cambio mi ha dato una maglia autografata, una delle ultime che abbia indossato, e la sua fascia da capitano”.
Torna in campo, un anno dopo, nel giorno dell’annuncio dell’addio di Daniele De Rossi, che quella fascia l’ha ereditata nella Roma. Una dichiarazione, la fine della sua carriera da calciatore in giallorosso, che segna la fine di un’epoca. Intanto, sul Centrale, un’epoca nuova comincia.
Berrettini alza il pugno, chiede energia da assorbire a un pubblico che non aspetta altro.
L’azzurro, decimo per rendimento al servizio nelle ultime cinquantadue settimane secondo l’indicatore ATP che considera punti vinti con prima e seconda, turni di battuta tenuti, media di ace e di doppi falli, non scende sotto il 70% di punti con la prima dalla sconfitta contro Grigor Dimitrov a Montecarlo. Le quattro palle break salvate sul 5-5, contro uno Zverev più deciso e continuo nell’attaccarlo sul rovescio, feroce quando l’azzurro accorcia col back centrale. Feroce ma impaziente, che è indizio di non totale sicurezza. Quando non sai cosa potrà succedere, se non sei certo di poter avere ancora altre occasioni, l’ansia diventa un inevitabile ma non raccomandabile compagno di viaggio.
Berrettini conserva invece la forza tranquilla di chi vede il viaggio e la destinazione, di chi sa che il suo successo è nel farla tutta quella strada, del suo passo. A due punti dal match, estrae un lob in back da un repertorio tecnico da anni Settanta, da racchette di legno e foto virate seppia. Sul match point, ha un mezzo rigore, se lo gioca con un passante di dritto in corsa che è invece il manifesto della modernità: lo stampa a mezza rete, ma la gestualità resta fluida, facile.
Colpisce senza sforzo, sicuro. Colpisce con gli occhi della tigre, con lo sguardo fiero e intenso, con una faccia da cinema che anticipa già un futuro da copertina. Zverev, invece, sembra via via più smunto. Meno solido quando arriva sulla palla con i piedi, meno scattante nel recuperare il centro, si affievolisce senza arginare la marea che monta. Una marea azzurra fatta di entusiasmo e convinzione, di dritti anomali che rimbalzano sguscianti, di smorzate al millimetro, di gusto per lo spettacolo.
Uno spettacolo che è insieme garbo e paillettes, grinta e lustrini, che ha il gusto estetico di Canzonissima, di Milleluci: dedizione e tenacia, eleganza creativa, zero concessioni all’eccentricità, allo sberleffo come firma di autenticità.
Il doppio fallo di Zverev che lo porta al primo match point testimonia l’incertezza del tedesco in una fase in cui, come spesso capita, il campo esacerba e non maschera le insicurezze della vita. Il tedesco, che ha adottato un cane a Miami e l’ha chiamato pop, a Roma ha fatto flop. Ma la partita non l’ha persa lui, l’ha vinta Matteo Berrettini. Uno che, come avrebbe detto lo scrittore Emanuele Trevi, «è una di quelle persone destinate ad assomigliare al proprio nome».